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La recessione “tecnica” è alle porte. Ma dopo giugno l’economia italiana dovrebbe tornare a crescere. Nell’ascoltare le parole di Giuseppe Conte mi sono riecheggiate tanto nelle orecchie quanto negli anfratti della memoria le definizioni che certi industriali davano dei tracolli economici e di quelli che, parallelamente, collegavano ad essi come fenomeni quasi magici di risollevamento delle sorti dei numeri del prodotto interno lordo della nazione quanto della produzione. Queste definizioni avevano per lo più il nomignolo di “ripresina” a significare che ancora non si era fuori dal tunnel ma che si iniziava a percepire la luminescenza di una lontana uscita. Il tutto veniva ovviamente procrastinato nel tempo: la ripresina va bene, ma mica subito subito. Lì si parlava, con una certa sfacciata prudenza, del celebre mantra del “tra un anno”, ora siamo nell’arco dei sei mesi. Un bel miglioramento, non c’è che dire. Così, oggi la flessione economica del Paese ci dice chiaramente che anche politicamente ci aspettano tempi ben più duri di quelli che stiamo vivendo e che non sono per niente adeguati tanto al mantenimento in vita di una comunità sociale, solidale e aderente ai princìpi sia del semplice buon senso e della reciproca convivenza sia a quelli più rigidamente legislativi, del diritto, della Costituzione. Non c’è ambito della nostra vita che ci avvicini ad un recupero di uguaglianza e giustizia sociale, ad una proposta di libertà declinata nel senso di una affermazione di diritti universali sul piano umano/umanitario e quindi all’approdo verso, se non proprio una “fratellanza universale” da età di Saturno, quanto meno ad una rivalutazione delle relazioni sociali su un piano di classe che unisca per affrontare una nuova offensiva del capitale contro il mondo del lavoro e della disoccupazione. La recessione economica non è frutto di una maledizione ma di una redistribuzione delle ricchezze prodotte compiuta in base ad uno sfruttamento sempre meno mano d’opera con un monte di ore lavorative sempre maggiore e l’utilizzo di contrattualità che farebbero invidia al peggiore dei sistemi schiavistici che ufficialmente ci siamo lasciati alle spalle, nella storia. Siamo un Paese dove invece di “lavorare meno e lavorare tutti”, si lavora di più ma a farlo è una cerchia sempre più ristretta che non è creata come tale da una concorrenza tra lavoratori occupati e lavoratori inoccupati: bensì è gestita da regole di mercato che oltrepassano le misere posture del capitalismo italiano. Ciò non significa che il padronato di casa nostra non abbia responsabilità nel più complesso contesto internazionale (soprattutto continentale): ne ha perché si è cullato per anni tra la protezione delle grandi banche e i benefici di Stato, a tutto scapito di una moderna forza-lavoro (materiale ed intellettuale) che è stata depredata di ogni diritto, tutela e garanzia, vedendo il proprio potenziale fattivo (quello di creare il plusvalore attraverso l’immissione del proprio lavoro nella creazione del prodotto sociale detto “merce”) mortificato attraverso la vera e propria destrutturazione del ruolo collettivo dei lavoratori nelle aziende: la parcellizzazione, l’atomizzazione entrata nei contratti gestiti con quel liberismo che ha incentivato e distribuito la “flessibilità” come elemento costituente del nuovo mondo della precarietà, sono state e tutt’ora sono la nuova piattaforma strutturale di un regime di sfruttamento che è recessivo per antonomasia perché non consente ai lavoratori di dare al loro futuro un programma. Tutto naviga a vista in nome dell’accumulazione del profitto in una globalizzazione dove la concorrenza sfrenata isola le eccellenze dei territori e fa prevalere la grande distribuzione a basso costo di produzione ed anche a basso costo di vendita sul mercato. In questo contesto ogni cosa subisce un abbassamento di valore: materie prime, beni di consumo primari, edilizia, cultura, scuola, università, specializzazioni, eccetera, eccetera… L’onda lunga della recessione, che origina anche dalla crisi di questi ultimi decenni, è amplificata da una mancanza di una seria progettualità in termini di riconversione del lavoro dal piano delle liberalizzazioni a quello della pubblicizzazione dei settori strategici dell’economia: ma uno Stato debole, che ignora sé stesso, che disprezza la sua Costituzione e che non fa niente altro se non costituirsi in nuova oligarchia di carattere nazional-sovranista, può forse avere un ruolo egemone in questa partita tra padronato e sindacati? Una partita priva di protesta, di unità di classe, dove però a morire ogni giorno sono proprio i lavoratori. Una partita dove la manovra economica governativa non arriva nemmeno ad esercitare la funzione di riforma strutturale, ma sospende gli effetti di controriforme pensionistiche senza rovesciarle a centottanta gradi e dove le elemosine del reddito di cittadinanza non serviranno a sovvertire l’impianto consolidato dello sfruttamento singolare del lavoro. Le oligarchie non sono avversarie del capitale, anzi ne sono fiere alleate anche se si mostrano “popolari”, “sovraniste”. Ed ha ragione Luciano Canfora quando afferma che per batterle si deve ripartire da un investimento nella formazione culturale, quindi in un incentivo alla conoscenza, allo studio, alla presa di coscienza del proprio livello di sfruttamento, della condizione che si vive e in cui si “sopravvive”. Senza un ritorno della cultura come grimaldello, come strumento scardinatore del torpore odierno, la massificazione del modello unico di etica fondata sulla dedizione ad uno Stato che ancora una volta dimostra la sua natura di classe nell’essere sovrastruttura dell’economia (affermandovi tutta la sua subordinazione incondizionata), rimane l’unica prospettiva di una vita che la politica politicienne farà apparire come lotta contro le ingiustizie mentre vi si affoga, lentamente, dentro.

Sorgente: LA RECESSIONE ECONOMICA FIGLIA DEL LIBERISMO DI IERI | Ancora Fischia il Vento

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