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Ernesto Cavallini

Nella lista di chi doveva controllare manca il nome del finanziere 75enne condannato a Genova per bancarotta

di Mario Gerevini

La «rapina» in banca più telefonata della storia è quella ai danni di Carige. Miliardi evaporati, reputazione in frantumi. Luigi Di Maio fa i nomi di quelli che ritiene corresponsabili: politici e aziende debitrici. Una data e un documento sembrano fare da spartiacque: 2013, verbale ispettivo della Banca d’Italia. Di fatto è quello che pensiona lo storico numero uno, Giovanni Berneschi, e dà il via all’inchiesta penale. Lì dentro ci sono nomi di imprenditori e gruppi industriali che secondo il ministro hanno contribuito al dissesto. Ne cita alcuni, che si difendono. Dimentica il meno conosciuto (forse proprio per questo) ma anche il più decisivo per capire cosa è successo davvero nella banca di Genova. Si chiama Ernesto Cavallini, 75 milioni «inchiodati». Di lui si occupò il tribunale di Genova nel 2001 condannandolo per bancarotta. Bankitalia due anni dopo mette in guardia Carige, consiglieri e sindaci, compresi.

Ma il finanziere continua a trovare porte spalancate e zero controlli. Ovvio: è in affari con il numero uno della banca, Giovanni Berneschi e con il capo delle assicurazioni, Ferdinando Menconi. Affari immobiliari molto sospetti. Si riveleranno poi il cuore dell’inchiesta penale e alla base delle condanne. I giornali ne scrivono già nel 2006. Non succede nulla. Berneschi continua a dominare incontrastato, Cavallini a finanziarsi e le due compagnie assicurative degli affari sporchi a far «buchi» (quasi 700 milioni ripianati dalla banca nel 2002-2014). Nel famoso verbale del 2013 Bankitalia segnala che solo su pressione della Vigilanza la posizione Cavallini era stata degradata in sofferenza.

Nell’inchiesta penale il finanziere ci entra in pieno e ne esce, a luglio 2018, con una condanna di oltre 8 anni, come Berneschi. Ma ha pascolato in banca per 13 anni mentre il numero uno teneva a bada generazioni di cda e narcotizzava con i dividendi la Fondazione azionista. Tutti sapevano che le compagnie erano «strategiche» perché ci lavoravano i figli di Berneschi, di Menconi e i parenti di qualche consigliere. Tra il 2001 e il 2014 almeno 20 volte Isvap-Ivass, Bankitalia e la stampa avevano messo sotto gli occhi di decine di amministratori l’evidenza solare di operazioni sospette e palesemente in danno del gruppo. È come se fossero arrivate mille telefonate, allarmi, segnali che consiglieri e sindaci indipendenti, e appena un po’ svegli, avrebbero dovuto cogliere. E invece hanno fatto anni di girotondo tenuti per mano da Berneschi. Non è reato ma giù per terra ci è andata solo la banca.

Sorgente: corriere.it

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