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Stavo con il mio ragazzo solo da pochi mesi quando lui ha suggerito di andare a vivere insieme, in una zona in cui non conoscevamo nessuno: avrei potuto finire l’università vivendo della mia borsa di studio, mentre lui avrebbe lavorato. «È la cosa più romantica che mi abbiano mai detto», gli ho risposto. Avevo ventidue anni e lui ne aveva ventuno.

Lui mi amava. Era gioviale, di compagnia, stava simpatico a tutti, aveva il faccino pulito che piace alle nonne e alle zie. Il suo carisma era come una luce brillante e luminosa, e mi sentivo fortunata a esserne illuminata. Con i soldi che fino a quel momento avevo risparmiato per un viaggio all’estero, ho traslocato e ho pagato la cauzione di un appartamento.

Sono passata sopra il fatto che non fosse stato in grado di tenersi alcun lavoro che aveva avuto e mi sono detta che le cose sarebbero cambiate. Mi aveva promesso di insegnarmi a fare i lavori di bricolage in casa per essere autonoma, a praticare le arti marziali che lui conosceva per potermi difendere, una volta che ci fossimo trasferiti; quando non l’ha fatto, mi sono convinta che non fosse il caso di preoccuparmi. Quando nel giro di un mese ha mollato il suo primo lavoro perché «non era all’altezza dei suoi progetti di aprire un’attività», sostenendo che «aveva bisogno del mio appoggio», ho messo da parte la borsa di studio e mi sono messa a dare lezioni private sette giorni su sette. Quando diceva che non aveva soldi perché la sua attività drenava ogni risorsa economica, gli anticipavo il denaro di cui aveva bisogno. Quando era infastidito perché, a differenza sua, avevo sempre dei risparmi da parte, minimizzavo per non irritarlo ulteriormente. Quando ha iniziato a non alzare un dito in casa, perché l’attività lo teneva troppo impegnato, ho fatto mugugnando anche la sua parte. Quando mi ha fatto capire che era colpa mia se non mi bagnavo durante il sesso, e invece di andare più piano bofonchiava di usare del lubrificante, ho fatto come mi ha detto. Quando ha iniziato a non tornare a casa la notte, dicendo che era rimasto con gli amici e che aveva bisogno «di respirare», ho cercato di vedere le cose dal suo punto di vista.

Se reagivo esprimendo qualunque emozione, peggioravo la situazione. «Non devi farmi le scenate, piantala di fare l’isterica», rispondeva puntualmente. L’unico problema della nostra relazione, diceva, era che io dovevo «smettere di comportarmi da pazza».

In famiglia, avevo visto spesso una delle mie zie portare dei segni sul corpo, lasciati da suo marito che l’aveva strattonata o picchiata. Per anni aveva sostenuto di non poterlo lasciare, altrimenti lui l’avrebbe uccisa. Quando ne aveva finalmente avuto il coraggio, lui aveva preso a perseguitarla e a minacciare chiunque osasse corteggiarla. Quando guardavo quella donna a me così vicina, vedevo una persona che viveva su un altro pianeta: lei viveva un rapporto abusante, io no. Se avessi guardato con più attenzione, avrei riconosciuto che il suo abuso era visibile, il mio era nascosto. E non sapevo come chiamare ciò che non riuscivo a vedere.

A ventidue anni, ho equivocato i segnali di abuso nella mia prima relazione importante, interpretandoli come prove del fatto che fosse il mio vero amore. Mi sentivo come in un film – con quanta velocità eravamo andati a vivere insieme e ci eravamo isolati dalla famiglia e dagli amici, perché avevamo bisogno solo l’uno dell’altra! – ma in realtà ero nel manuale del tipico abusatore, le cui tattiche sono spesso confuse dalle vittime con atteggiamenti romantici e fraintese dagli altri, che fanno l’equivalenza “abuso = percosse”. Anche se non è detto che un abuso psicologico in una relazione degeneri in violenza fisica, raramente una relazione fisicamente violenta non inizia con un abuso psicologico, e i suoi effetti possono andare oltre un braccio rotto.

Ricordo un giorno al consultorio della mia città, dove mi trovavo per una visita: nella sala d’aspetto ho visto un poster sulla violenza domestica. La donna nel poster non mi assomigliava, e aveva un bambino in braccio. Io non avevo bambini, né volevo averne. Ricordo anche che una volta, quando parlando con mia nonna ho accennato ad alcuni problemi nella nostra relazione, mi ha risposto che lui era «solo un ragazzo», che una donna «deve essere amabile» e che avrei dovuto «dargli tregua».

Oggi, quando racconto la mia storia a qualcuno, che sia un estraneo o un amico conosciuto dopo, mi fanno sempre la stessa domanda: «Era violento?». In quel momento mi chiedo se stiano immaginando il mio volto gonfio e tumefatto. So che mi stanno chiedendo delle prove che nella mia relazione ci fosse un abuso secondo la definizione comune, e subito dopo vogliono sapere perché sia rimasta con lui così a lungo. La verità è che le poche volte che è stato fisicamente violento con me erano come piccoli punti su una lunga linea temporale di sottili manipolazioni, umiliazioni pubbliche, controllo ossessivo e gaslighting.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità riconosce quattro tipi di violenza all’interno di una relazione: fisica, sessuale, emozionale/psicologica, controllo ossessivo. Spesso coesistono, e di frequente l’aggressione verbale precede la violenza fisica. Gli studi hanno mostrato che un abuso condotto sotto forma di umiliazione, paura e degradazione, sul lungo periodo, è più debilitante per la psiche rispetto alla violenza fisica; in effetti, l’abuso psicologico può prolungare la relazione, nella misura in cui la vittima si consuma nell’insicurezza, nella depressione e in un basso livello di autostima. È noto che gli effetti psicologici del «ciclo dell’abuso» sono comparabili a quelli della tortura sui prigionieri di guerra: isolamento, seguito da manipolazione della percezione, umiliazione, eventuale somministrazione di droghe e alcol, occasionali e casuali atti di indulgenza volti a mantenere viva la speranza che la tortura cesserà.

Se in campo accademico è assodato che l’abuso psicologico può essere traumatico tanto quanto l’abuso fisico, tuttavia, il pubblico può non esserne consapevole, forse anche a causa di come le relazioni abusanti sono ritratte dai media. Sfortunatamente, perché una notizia sia degna di essere riportata deve essere sensazionale. Deve scapparci il morto, o la vittima deve essere famosa quanto il colpevole (un po’ come per l’aggressione a Rihanna da parte di Chris Brown, nel 2009). Le ferite di un abuso psicologico sono più difficili da immortalare. Se esaminiamo gli articoli sulla violenza domestica sulle più prestigiose testate giornalistiche, quante volte si dà notizia di un abuso psicologico o emozionale? L’esclusione delle forme non fisiche di abuso è un disservizio alle vittime, che non vedono mai rappresentate le proprie esperienze.

Le ricerche mostrano anche che la violenza all’interno di una relazione può peggiorare sintomi depressivi presenti nelle vittime. Le persone che hanno sperimentato la depressione sono anche maggiormente esposte al rischio di diventare vittime di un partner violento.

Ho lottato contro la depressione, l’ansia e i disturbi alimentari da quando avevo sedici anni. Dopo un mese che uscivamo insieme lui mi ha raccontato un grave episodio traumatico della sua infanzia e ho pensato che, quindi, non sarebbe stato pericoloso aprirmi a mia volta sulla mia storia. Col tempo, però, la mia salute mentale è diventata un’altra freccia al suo arco. Se piangevo perché lui non c’era mai, era perché avevo bisogno di essere curata. Se avevo l’ansia perché lui aveva perso un altro cliente e la sua attività, dopo anni, continuava a non ingranare, mi diceva di prendere un calmante. Quando non credevo alle scuse che adduceva per le sue continue assenze e per gli ammanchi di soldi che si susseguivano, ribatteva che avrebbe iniziato a registrare le mie parole per farmele riascoltare e farmi capire quanto ero pazza.

Mi piacerebbe raccontare che l’ho lasciato subito e che ho chiuso rapidamente quel capitolo della mia vita, ma sarebbe una bugia. C’è stato un momento in cui ci sono andata vicina, per la verità. Dopo una lite furibonda, durata dal primo pomeriggio fino a dopo cena, lui mi ha detto: «la nostra storia non ha futuro». Era vero, e in cuor nostro lo sapevamo entrambi. Avrei dovuto lasciarlo in quel momento. Ho fatto la valigia e sono stata sveglia tutta la notte. Però mi sentivo persa, spaventata: non ero ancora pronta a lasciarlo per sempre. Il mattino seguente ho disfatto la valigia, dopo che lui mi aveva detto con voce smielata che aveva parlato così per incoraggiarmi: se io fossi cambiata e fossi stata più accomodante, la situazione si sarebbe risolta.

Siamo stati insieme per cinque anni, in cui periodicamente andavo in crisi e mi sfogavo con le mie migliori amiche su alcune delle cose che non andavano nella nostra storia. Nella loro saggezza e nel loro rispetto, di cui sarò sempre grata, non mi hanno mai imposto alcuna scelta: sapevano che sarebbe stato meglio che lo lasciassi, ma anche che dovevo arrivarci da sola, coi miei tempi, perché fosse una scelta davvero mia. Anche a loro, però, non dicevo tutto. Con tutti gli altri, del resto, fingevo di vivere la storia perfetta, esattamente come fingeva lui. Il mio rifiuto di ammettere la verità derivava dalla paura: tutti mi conoscevano come una persona risoluta e femminista, se avessi ammesso che la nostra relazione era abusante mi avrebbero considerata debole e stupida per esserci cascata. O almeno così temevo.

A ventisei anni ho trovato un lavoro più stabile (per quanto questo aggettivo sia valido per la mia generazione), che mi ha permesso di avere maggiore sicurezza in me stessa; a ventisette ho conosciuto le storie di Abbatto i Muri, ho capito che non ero sola e ho potuto dare nome per la prima volta a dinamiche ben precise. Come fai a sapere che un’azione è violenta se nessuno te lo ha mai detto? Come fai a sapere che è sbagliata se, magari, non c’è neanche un termine per definirla in italiano?

Quello stesso anno sono andata da sola fuori città per un convegno. È stato come recuperare la vista: lui non mi aveva mai cercata e mi sono resa chiaramente conto del fatto che non mi mancava affatto. Stavo meglio senza di lui, ce la facevo da sola. L’ho lasciato poco tempo dopo. Il mattino dopo, lui è rientrato in casa e mi ha scopata contro la mia volontà. Faccio ancora fatica a scrivere «violentata», figuriamoci a dirlo. Ho avuto paura – il palazzo era vuoto, lui era molto più robusto di me – e non ho urlato. Ho aspettato che se ne andasse, mi sono fatta una doccia, ho mangiato, ho fatto la valigia e sono andata via per una settimana. Solo in seguito sono stata costretta ad affrontare ciò che la nostra relazione era realmente.

La mia storia non è, per certi versi, un esempio lampante di violenza domestica. Non sono stata rapita, né sono stata ricoperta di lividi; non sono scampata a un tentato omicidio. Ma la mia storia è importante perché è uno dei tanti esempi di cosa sta capitando alle persone, soprattutto giovani. A scuola non se ne parla abbastanza, in università non ne parliamo. Sul lavoro è raro trovare qualcuno che si esprima: non stento a comprendere la paura di un giudizio negativo nel caso in cui si sappia che abbiamo subito violenza.

Adesso ho trent’anni. Ho superato i miei disturbi alimentari e l’ansia va molto meglio. Sto ancora cercando di recuperare una parte dei miei soldi, ma in fondo so che la mia libertà non ha prezzo. Lui non frequenta più quelli che erano i nostri amici comuni: si è fatto terra bruciata attorno. Sto con il mio attuale fidanzato da quasi due anni. Una sera ci siamo trovati in disaccordo per una scemenza; quando me ne sono accorta mi sono paralizzata, aspettandomi che iniziasse a urlare contro di me. Lui, invece, mi ha abbracciata come se non fosse successo niente, mentre a me veniva da piangere. A ventidue anni credevo che ciò che stava accadendo a me non fosse nulla in confronto alla vita di mia zia, ma tutto ciò che potevo confrontare era il suo dolore con il mio. Non sapevo ancora che cosa ci fosse oltre il dolore

Sorgente: La violenza invisibile: “Non avevo lividi. Era comunque un abuso”. – Al di là del Buco

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