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Sono due i fattori che segneranno il 2019 e i prossimi anni a venire: una possibile riforma dell’Unione Monetaria, che compie venti anni, e la necessaria ricerca di una strategia comune su come affrontare in Europa la fine del Quantitive Easing. I due temi si intrecciano, dipendono l’uno dall’altro, perché forse il primo rappresenta la soluzione del secondo, semmai qualche parlamento avrà la forza di varare riforme dopo le elezioni europee. Partiamo da un bilancio sulla fine del famoso bazooka della Banca centrale europea.

Dal marzo del 2015 la Bce ha permesso, per aggirare le regole del suo statuto, alle banche centrali nazionali di diciotto paesi, di comprare titoli per oltre 2.500 miliardi, fra cui debito pubblico italiano per un quinto dei titoli di stato esistenti, pari al doppio del deficit cumulato nello stesso periodo. Come ha osservato Guido Salerno su Milano Finanza, l’Eurotower ha comprato di tutto, cercando di aiutare governi e imprese stritolati dalla recessione e dall’austerity: titoli pubblici per 2.096 miliardi, covered bond per 177, asset backed securities per 28, asset aziendali per 262. Per ottenere però, sul fronte dell’economia reale, un po’ poco: l’inflazione non ha effettivamente superato il tetto del 2% (obiettivo statuario della Banca Centrale Europea) e in Italia resta pressoché allo stesso livello del 2015 intorno all’1,4%.

Ora dal 2019, anno ventesimo dell’era Unione Monetaria, Francoforte non ci lascerà del tutto soli, perché continuerà ad acquistare titoli già emessi, ma bisognerà attrezzarsi con altre politiche di bilancio. Si può dire che il QE di Mario Draghi è stato efficacissimo nell’evitare nuove crisi dei debiti sovrani e nell’affermare l’irreversibilità dell’euro, insomma nell’emergenza finanziaria ha dato il suo meglio e ha congelato il famigerato spread. È sembrato meno poderoso nell’economia reale, dove i problemi e la mancanza di convergenza tra le varie economie sono rimaste le stesse di tre anni fa. In questo caso non è irrilevante il fatto che la Bce non stampi denaro bensì compri al mercato dell’usato quello già circolante, a differenza della Fed americana, che usa un canale diretto per arrivare alle aziende. Dal crac Lehman Brothers a oggi, e dunque compreso il triennio di bazooka, il Pil della Grecia ha perso il 24%, quello dell’Italia il 6%, tutto il resto è andato meglio ma con grandi differenze: Spagna +2%, Francia +6,7%, Germania +10,9%, Gran Bretagna +11%, Irlanda +38%.

Fuori dall’Ue e senza QE, la Cina è cresciuta del 120%, il Giappone del 4,7%, gli Stati Uniti del 14%. La disoccupazione invece è scesa al 5% solo in Germania, in tutti gli altri paesi dell’euro è rimasta almeno il doppio, mentre il debito pubblico nell’eurozona è arrivato quasi al 90% del Pil con i picchi italiani e greci (ma anche la Francia è quasi al 100% e in valore il suo indebitamento assoluto cresce come il nostro). In tutto oggi in Europa sono 118 milioni le persone a rischio povertà o esclusione sociale. A poco è servito il Piano Juncker da oltre 300 miliardi di euro. Non era il nuovo Marshall, soprattutto perché si trattava di una garanzia di Bruxelles su progetti già bancabili e remunerativi e dunque non ha comportato investimenti aggiuntivi rispetto a quelli già previsti. Ha aiutato ma non è stato vulcanico, anzi è finito ben presto in soffitta.

Chissà come sarebbe andata negli ultimi dieci anni se avessimo avuto una banca centrale federata e un debito comune emesso da un tesoro unico. Forse va aggiornato anche lo statuto della Bce, visto che un’inflazione sopra il 2% nell’area dell’eurozona resta un obiettivo ormai inutile da raggiungere, semplicemente perché non c’è più il rischio di un aumento improvviso del costo della vita, ormai si deprezzano direttamente i salari. In molti cominciano a pensare che sulla sparizione dell’aumento dei prezzi molto incida l’effetto che ha l’economia digitale sulle transazioni commerciali.

E arriviamo quindi al primo punto in premessa. L’Unione Monetaria, che ha vissuto un primo decennio di prosperità commerciale, nella seconda parte della sua esistenza, non è riuscita ad arginare l’aumento delle disuguaglianze, ciascun paese è cresciuto in modo diverso e chi non ha adottato l’euro, è cresciuto il doppio. Questo è il dato che più deve far riflettere le istituzioni sulla necessità di liberare l’Eurozona dalla morsa dei Trattati, stretta come è tra l’America First di Donald Trump e l’Unione allargata dell’Est.

L’Ume non ha ancora raggiunto i risultati voluti. Sono stati due decenni molto particolari. Nel primo si è esaurito un ciclo finanziario espansivo globale durato trent’anni; il secondo è stato segnato dalla peggiore crisi economica e finanziaria dagli anni ’30. L’Unione Monetaria è stata un successo sotto molti punti di vista ma allo stesso tempo occorre riconoscere che non in tutti paesi sono stati ottenuti i risultati che ci si attendeva, in parte per le politiche nazionali seguite, in parte per l’incompletezza dell’unione monetaria stessa, che non ha consentito un’adeguata azione di stabilizzazione ciclica durante la crisi. È stato un processo a strappi, ha ammesso recentemente il presidente della Bce, Mario Draghi. Ne è seguita una crescita disomogenea e una mancanza di convergenza economica.

Dal 1957 al 2007, e dunque nel primo decennio dell’Unione Monetaria, i poveri sono scesi dal 41% al 14% della popolazione europea e la ricchezza delle famiglie è cresciuta di ben quattro volte, con una riduzione delle disuguaglianze che non ha avuto eguali nella storia. L’ultimo decennio di crisi ha invece capovolto questo processo. Si sta allargando la forbice tra i ricchi e poveri e tra regioni arretrate e sviluppate. L’80% della nuova ricchezza va al 15% della popolazione più agiata. Sono cresciute le asimmetrie, soprattutto per i giovani. In molti Stati membri i salari reali sono fermi dal 2008. Per la prima volta da mezzo secolo, le nuove generazioni sono in difficoltà: 23 milioni di europei tra i 15 e i 34 anni non studiano e non lavorano. Ben 118 milioni, il 24% della nostra popolazione, sono a rischio povertà o esclusione sociale. Gli stessi stati europei dal 2012 hanno ceduto con il Fiscal Compact ulteriore sovranità ma questo potere non ha sferzato le istituzioni di Bruxelles a cercare delle nuove formule di crescita per i suoi cinquecento milioni di amministrati, si sono accontentate di usare il proprio potere sui conti pubblici dei vari paesi. Tutto è fermo, mentre il mondo evolve e cresce la voglia di nazionalismo davanti alle ingiustizie sociali e all’aumento della ricchezza di pochi. In Europa e in Italia, siamo all’anno zero. Tra poco servirà un Quantitive Easing non per i debiti, ma direttamente per i sovrani, se quest’ultimi non promuoveranno le dovute riforme per una maggiore integrazione sociale e non solo economica.

In vent’anni siamo tutti più soli di fronte alle sfide della globalizzazione. L’euro e l’Unione monetaria sono sicuramente una coperta, diventata però troppo corta

 

Sorgente: Euro 1999-2019, vent’anni di solitudine | L’Huffington Post

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