Donald Trump e l’ossessione del perdente
Un curioso articolo del Washington Post conta le volte in cui Donald Trump, twittando, usa la parola “loser” (perdente): ne registra 170 a fine settembre 2016. Mentre scrivo, il Trump Twitter Archive segna “loser” come il primo degli insulti ricorrenti, con 234 occorrenze. Seguono “dumb” o “dummy” (scemo, idiota), “terrible” (terribile, orrendo), “stupid” (stupido) e “weak” (debole, fiacco). A meno che qualcuno degli assistenti non strappi il telefonino dalle mani di Trump, immagino che i numeri cresceranno.
E che l’ordine in classifica subirà poche modifiche. D’altra parte, a ben vedere, le accoppiate debole/perdente e stupido/idiota delineano un paesaggio cognitivo che comprende criteri di giudizio forse un po’ rozzi, ma dotati di un’innegabile coerenza e dunque, probabilmente, persistenti.
Si tratta di criteri di giudizio caratteristici del pensiero dicotomico, quello che schematizza e semplifica dividendo il mondo in bianco e nero. O in amici e nemici. O, appunto, in perdenti e vincenti. È un pensiero sbrigativo e inadeguato a destreggiarsi nella complessità del presente. Ma è anche facile da comprendere, rassicurante e consolatorio. Specie per chi colloca sempre se stesso dalla parte buona.
Conseguenze paradossali
La cosa notevole è che, come rileva il New Yorker, nella sua cupa cerimonia inaugurale Trump descrive gli americani come vittime, e dice che la storia del paese è una storia di declino. Insomma, delinea un’intera nazione di perdenti che lui, come unico vincente, promette di “proteggere”. Cosa che relega gli americani – è ancora il New Yorker a notarlo – in un’ancor più profonda condizione di perdente passività. Questo, tra l’altro, potrebbe essere uno dei punti di debolezza della comunicazione presidenziale futura.Psychology Today scrive che l’America ha l’ossessione di definire successo e felicità in termini di vincenti e perdenti. Si tratta di un atteggiamento che permea qualsiasi ambito, dallo sport alla politica agli affari, e procura più danni che vantaggi.
L’ossessione genera, infatti, alcune conseguenze paradossali: per esempio, una citatissima ricerca spiega che i vincitori olimpici di medaglie d’argento sono solitamente più insoddisfatti dei vincitori di medaglie di bronzo. Succede perché gli “argenti” si ritengono perdenti rispetto al primo classificato, mentre i “bronzi” sono comunque felici di essersi conquistati una medaglia.
Questa sindrome si riflette nella percezione del pubblico, e si estende anche agli sport amatoriali: le persone più infelici e frustrate si esaltano solo per i risultati eccellenti, e solo quelle più felici apprezzano qualsiasi buon risultato (vi sono venuti in mente gli innumerevoli casi italiani di genitori che fanno a botte sul campetto da calcio dei pargoli? Be’, anche a me).
Ed ecco quali sono le conseguenze del voler vincere a ogni costo, e non solo negli sport: perdita del piacere di mettersi alla prova, e del senso stesso della competizione. Propensione a vincere anche con l’inganno. Incremento dello stress. Aumento dei pregiudizi e dell’alienazione. Trasformazione di ogni sconfitta in un evento traumatico.
Dirlo al Partito democratico americano
L’alternativa al competere, ovviamente, non è rinunciare alla competizione (sarebbe un’altra forma di pensiero dicotomico), ma scegliere la cooperazione.Tra l’altro: se mettiamo a confronto i due approcci, nella scuola, nel lavoro, nello sport e perfino nei rapporti tra gli stati, scopriamo che a vincere è l’approccio cooperativo: ce lo dicono, (a ricordarlo è ancora Psychology Today), oltre 122 ricerche indipendenti.
Forse, alla faccia di Trump, varrebbe la pena di rileggersi quello che scrive Alex Zanardi: un campione che di competizioni sa più di qualcosa. O bisognerebbe ricordare (ne ho parlato qui) la straordinaria storia di Derek Redmond, che mentre sta correndo i 400 metri piani alle Olimpiadi si strappa un muscolo e taglia il traguardo sorretto dal padre. Perde la gara ma vince la più intensa e commossa standing ovation della storia olimpica.
Già: i vincenti, se li consideriamo sotto il profilo narrativo, sono poca cosa. E spesso una positiva, consapevole ed energica reazione alla sconfitta risulta molto più interessante ed emozionante di una vittoria esibita, autocelebrata e non esente da controversie. Speriamo che qualcuno lo dica al Partito democratico americano.
Sorgente: Donald Trump e l’ossessione del perdente – Annamaria Testa – Internazionale